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Dalla salute del premier alle torri 5G, le bufale delle “forze ostili” sul Regno Unito

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Articolo di Antonello Guerrera, La Repubblica

L’obiettivo, spiega Damian Collins della piattaforma Infotagion, “non è dimostrare una tesi o un fatto, bensì semplicemente diffondere caos”. Secondo il governo britannico, il Paese è nel mirino di Russia, Cina, Iran e Corea del Nord

La sera del 5 aprile scorso, mentre la Regina Elisabetta pronuncia un commovente discorso in tv per rinfrancare il morale della nazione appena sigillata per Covid-19, Boris Johnson viene ricoverato al St. Thomas hospital di Londra, a pochi metri dal Parlamento. Perché il coronavirus che lo ha contagiato non va via. Anzi, le sue condizioni peggiorano di giorno in giorno. Nessuno conosce le sue reali condizioni. Ma, poco dopo la mezzanotte di quella sera, l’agenzia di stampa ufficiale russa Ria Novosti pubblica uno “scoop” secondo il quale il premier britannico “sarà a breve intubato, sotto un ventilatore polmonare”. Uno scenario in cui Johnson rischierebbe seriamente di morire, visto che chi viene intubato non sopravvive in quasi il 60% dei casi negli ospedali del Regno Unito, e soprattutto alla sua età (56 anni).

Ma la “notizia” di Ria Novosti non era vera. Johnson non è stato mai intubato, ha avuto bisogno “solo” di una maschera per l’ossigenazione, ma non invasiva. Difatti, dopo una settimana è stato guarito e dimesso dall’ospedale. A nostra domanda posta il giorno successivo al ricovero, il portavoce del premier non ha usato mezzi termini sulla “fake news” di Ria Novosti: “È disinformazione chiara. Le nostre unità speciali del governo hanno notato un incremento di queste narrative false e devianti da quando è esplosa la pandemia. È importante soffocarle subito, sin dal principio. Stiamo lavorando costantemente con le aziende di social media per bloccare la diffusione di simili falsità”.

L’obiettivo, secondo Downing Street, è sempre lo stesso: seminare discordia, ansia e divisioni nei Paesi occidentali, cosa non nuova da parte dei produttori di fake news, dalla Russia (anche via fonti ufficiali, come Ria Novosti), ma non solo. “Non è la prima volta che abbiamo visto una cosa del genere”, ci racconta Damian Collins, deputato conservatore 46enne, per anni a capo della Commissione parlamentare di Cultura e Media che si è occupato di disinformazione e ora fondatore della piattaforma Infotagion che combatte proprio le bufale online sul Covid-19. “Anche altri canali ufficiali o semiufficiali di Mosca come Russia Today o Sputnik hanno instillato dubbi su molte storie in Regno Unito, con decine di versioni diverse. L’obiettivo, per loro, non è dimostrare una tesi o un fatto, bensì semplicemente diffondere caos. Come per la bufala di Boris “intubato””.
Le “forze nazionali ostili”

Secondo il governo britannico, il Regno Unito “è sotto attacco” da mesi da parte di “forze nazionali ostili”. L’esecutivo non fa mai i nomi esplicitamente, ma gli indizi portano a Russia, Cina, Iran e Corea del Nord. I siti del governo e delle istituzioni sanitarie britanniche vengono sottoposti quotidianamente ad attacchi hacker per rubare informazioni sensibili e ricevono circa 10mila mail al giorno potenzialmente “pericolose”, con virus, “cavalli di troia informatici” o possibili hackeraggi. In più, nell’era del coronavirus, abbondano le fake news sull’emergenza Covid-19: “Oggi c’è un 20-30% di persone che oggi credono che il virus sia nato in laboratorio”, analizza Collins. “Oppure vogliamo parlare del numero crescente di cittadini che annunciano di non volersi sottoporre a un vaccino contro il Coronavirus? Comportamenti che non sono limitati perché, nel caso della sanità pubblica, hanno un impatto anche sulle altre persone. Questi network ostili non vogliono nemmeno stabile una verità alternativa ma soltanto creare confusione ed esacerbare tensioni, come accaduto anche per l’avvelenamento russo di Salisbury ai danni dell’ex spia Skripal: lo notiamo negli stessi account degli “spammatori”, utenti fittizi che sembrano esperti in qualcosa e poi cambiano repentinamente argomento a seconda della convenienza”.
Le Torri 5G
Nelle ultime settimane hanno scioccato in Regno Unito le decine di incendi delle torri telefoniche, antenne o centraline della rete ultraveloce per cellulari di ultima generazione 5G, reputate da teorie del complotto molto diffuse online di essere responsabili della diffusone del coronavirus. È capitato a Birmingham, Liverpool, Melling (sempre nell’inglese Merseyside), a Belfast, in Irlanda del Nord. In alcune circostanze, subito dopo online sono spuntati video che riprendono alcune persone attaccare le antenne e poi esultare al grido di “Fuck 5G” o anche “viva la revolución”.

Sono due le teorie del complotto più diffuse online. La prima sostiene che le reti 5G indebolirebbero il nostro sistema immunitario, rendendoci quindi più esposti al coronavirus. Questa teoria, rilanciata oltremanica dal tabloid Daily Star, è sostenuta, tra gli altri, da un attivista e professore di filosofia del College dell’Isola di Wight, ma scientificamente è una bufala perché le onde radio del 5G e le sue radiazioni elettromagnetiche sono ben sotto il livello di guardia internazionale, addirittura 66 volte in meno del limite oltre il quale radiazioni e onde possono modificare il Dna e quindi creare gravi problemi alla salute come i tumori.

La seconda teoria del complotto sostiene invece che grazie alle reti 5G “i batteri riuscirebbero a comunicare e a diffondersi più velocemente e densamente” nelle nostre comunità e dunque in questo caso anche il coronavirus sarebbe facilitato nella sua azione. Anche questa ipotesi è stata rilanciata dallo stesso Daily Star, citando uno studio del 2011 di alcuni ricercatori della Northeastern University di Boston e di quella di Perugia per cui “i batteri riuscirebbero a comunicare” e diffondersi meglio grazie a un solido supporto elettromagnetico. Uno studio controverso, che non è mai stato pienamente dimostrato. Ma soprattutto, il coronavirus è, appunto, un virus: non un batterio. Però il festival delle patacche in Rete ha attecchito. Con conseguenze pericolose.

“Questo dimostra quanto sia grave la minaccia”, spiega Damian Collins. “Il Regno Unito è da tempo sotto la minaccia di network di disinformazione, alcuni dei quali basati in Russia, ma anche in Cina e altri Paesi ostili con l’obiettivo di diffondere odio, fomentare le divisioni nella comunità, interferire nella politica locale. Oppure, seminare informazioni pericolose nella lotta al Coronavirus, vedi le fake news sul 5G”.
Il memo sui negoziati Uk-Usa

Ma la galassia che ingloba hacker e “fake news” di stato è molto più ampia di quanto appaia. Due settimane prima delle elezioni dello scorso 12 dicembre in cui ha trionfato Boris Johnson, il leader dell’opposizione laburista Jeremy Corbyn presenta alla stampa un documento “esplosivo”: circa 500 pagine di memo sui negoziati tra Regno Unito e Usa per i rapporti commerciali post Brexit. Dalle minute, Corbyn fa notare come il governo Johnson “stia svendendo la sanità pubblica”, uno dei pilastri accusatori della sua campagna elettorale. Il premier nega tutto. Ma come ha fatto Corbyn a ottenere quei documenti?

Se il flusso quotidiano di “fake news” spaccia per vere patacche e altri documenti farlocchi, stavolta il documento era autentico. Dunque, una “gola profonda” l’avrebbe passato a Corbyn. Oppure è stato hackerato illegalmente, e poi consegnato in qualche modo ai laburisti. Secondo le analisi del Digital Forensic Research Lab (DFRLab) del think tank Atlantic Council sono valide entrambe le ipotesi. Le loro indagini hanno svelato come il file dei negoziati fosse stato postato sul social network Reddit da un utente di nome “Gregoratior”, che poi ha provato a diffonderle anche su Twitter e altri social media. Inizialmente, e per settimane, nessuno ci ha fatto caso. Poi, in qualche modo, ha colto l’attenzione del Labour di Corbyn, che ha messo le mani sui documenti.

“Non c’è dubbio che questo “leak” sia originato in Russia”, ci spiega Ben Nimmo, esperto informatico britannico, che ha collaborato per anni al Digital Forensic Research Lab (DFRLab) e a capo delle inchieste della società americana di analisi informatica Grafika, “anche se non è mai facile capire quanto questi hacker siano legati al Cremlino”. Nel caso particolare, però, ci sono indizi pesanti perché sono molto simili a un altro caso di “fake news” in cui Mosca era direttamente coinvolta e cioè il cosiddetto “Secondary Infektion” (dal nome della campagna di disinformazione sovietica). Dagli stessi errori grammaticali (tipici di un russo che parla inglese, e Nimmo le sa entrambe fluentemente), nelle molte lingue in cui gli “articoli” venivano tradotti fino ai metodi di diffusione. A confermare questa connessione anche studi da parte dell’università di Cambridge e Oxford.

Con una differenza: il “leak” arrivato a Jeremy Corbyn conteneva documenti veri, mentre Secondary Infektion nei mesi precedenti ha diffuso sui social, spacciandole per notizie verificate, invenzioni e astrusità atte a “seminare panico e discordia”, come falsi litigi tra politici britannici e americani, un fantomatico documento della Commissione Europea che si scagliava contro il possibile Nobel per la Pace al dissidente russo Aleksej Navalnyj, minacce di morte non veritiere a Boris Johnson da parte di “un europeista” o addirittura assurdi contatti tra l’Ira e il terrorismo islamico.

“Dalle nostre ricerche siamo certi che ci sia la stessa regia dalla Russia”, afferma Nimmo, “non sappiamo però esattamente chi lo guida e non sappiamo neanche se ci sia stato un hackeraggio alla base”, o se qualcuno del governo britannico sia stato la talpa. “Ma”, dichiara l’esperto, “è sicuramente parte di una operazione sistematica dalla Russia per destabilizzare l’Occidente e per ragioni geopolitiche, ma non sappiamo a che livello”. Mosca ha sempre negato ogni coinvolgimento.

“La disinformazione arriva da molti attori e per molte ragioni”, spiega Nimmo, “dagli Stati fino al “click-baiting” di bufale postate da utenti solitari semplicemente per fare soldi. Per esempio, qualche settimana fa c’è stato il caso della fake news della morte di Elisa Granato”, la ricercatrice di origine italiana di Oxford che per prima ha sperimentato il potenziale vaccino anti Covid-19. “Uno pensa magari che sarà disinformazione dei russi o dei cinesi. Invece, era semplicemente qualcuno che voleva fare soldi con i “clic” degli utenti, di base in Macedonia, diffondendo una bufala, non nuovo a queste pratiche”.
Il referendum sulla Brexit
Uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni è stata la potenziale influenza di bufale e “targeting voting” (ossia, quando si individuano utenti ed elettori da convincere grazie alle loro tracce sui social o addirittura entrando a tradimento nei loro profili, come nel caso di Cambridge Analytica in America) per quanto riguarda il referendum della Brexit. Sul tema si sono sovrapposte numerose analisi, inchieste, indagini e anche procedimenti processuali, ma non è stato certificato alcun attacco esterno “di Stato” che abbia avuto un ruolo determinante. “Il giorno del voto di quel referendum”, ricorda Nimmo, “abbiamo registrato un incremento di attività di account legati alla Russia”, secondo l’allora ministro delle Finanze Philip Hammond “il solo Paese che spinge per farci uscire dall’Ue”. “Ma”, continua Nimmo, “si è trattato di qualche migliaio di tweet. Poco per credere che abbiano davvero spostato l’ago della bilancia”.

Della stessa idea Collins: “Non credo che i risultati politici degli ultimi anni siano stati modificati da questi flussi di fake news, ma certo è qualcosa che va regolato il prima possibile, soprattutto per quanto riguarda i social network: YouTube e Twitter”, che per esempio ha annullato la vendita di spazi pubblicitari accusati di essere veicolo anonimo di bufale avvelenate online, “stanno agendo, e bene. Altri, come Facebook, sono ancora indietro e non agiscono a sufficienza”. C’è un report dell’intelligence britannica sulle “influenze russe” sulla politica oltremanica che deve essere pubblicato da mesi ma, che per via di alcune nuove nomine, ancora non vede la luce: “Potrebbe aiutare”, commenta il deputato.

Tuttavia, come ha confermato anche la Commissione parlamentare britannica di Cultura, Media e Sport nel luglio 2018 nel rapporto Disinformation and “fake news”: Interim Report, “secondo una ricerca dell’agenzia di comunicazione 89up, Russia Today e Sputnik hanno pubblicato 261 articoli euroscettici tra il 1 gennaio 2016 e il 23 giugno dello stesso anno, giorno del referendum. I loro contenuti contro l’Europa hanno raggiunto più pubblico addirittura delle campagne ufficiali britanniche per l’uscita dall’Ue, “Vote Leave” e “Leave.EU”. E una ricerca della University of California insieme a quella di Swansea e Berkley ha dimostrato come 156.252 account russi (non necessariamente legati ad apparati di governo, ndr) abbiamo twittato di Brexit e postato 45mila messaggini nelle ultime 48 ore di campagna referendaria”.

Insomma, anche se non ci sono le prove di influenze “di Stato” nel risultato finale del referendum, c’è di certo un grande interesse in Russia e in altri Paesi come la Cina per il destino politico del Regno Unito. Come c’è interesse per i report delle Commissioni parlamentari sulle presunte influenze esterne, nel caso della Brexit e non solo. La camera dei Comuni ha rilevato che, per esempio, una pagina del sito del governo che parlava di fake news e disinformazione l’anno scorso ha ricevuto il maggior numero di contatti e utenti da un Paese: la Russia.

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