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Pisano: la connettività non basta, Cloud e 5G per digitalizzare il Paese

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Articolo di Giuliana Ferraino, Corriere della Sera

 

Abbiamo ancora zone di Italia nelle quali la copertura della rete è assente o insufficiente. La connettività è indispensabile, va estesa, ma per aumentare le capacità digitali del Paese non basta. Va anche sviluppato il ricorso a tecnologie, per indicarne solo alcune, come il cloud computing, il 5G, l’edge computing. Occorre farlo per abbattere i costi e aumentare la velocità di potenziamento dei servizi digitali, oltre che per l’elasticità dei sistemi e la sicurezza. Queste tecnologie esistono, non possiamo ignorarle. Ed è evidente la necessità di far crescere le competenze in questi campi», sostiene Paola Pisano, 43 anni, da un anno ministra per l’Innovazione, oggi al crocevia delle grandi partite su cui l’Italia si gioca il futuro, dalla rete unica al cloud alla digitalizzazione del Paese. E i miliardi Ue del Recovery Fund sono una formidabile spinta. «Stiamo già presentando i primi progetti al governo», anticipa la ministra

Ma da mercoledì si parte sul serio, con la riunione del Comitato interministeriale degli affari europei. «Il Ciae, coordinato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, adotterà le linee guida a cui dovranno ispirarsi tutti i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, in sostanza il piano complessivo del Paese che beneficerà delle risorse del Recovery Fund. Subito dopo le linee guida saranno portate all’esame del Parlamento. I progetti cominceranno a essere presentati alla Commissione Ue a fine ottobre».

I dati indicano che l’Italia è a metà classifica in Europa per connettività, ma in fondo per la digitalizzazione dell’economia: al 25° posto su 28. Perché?

«Perché noi italiani che siamo la seconda economia manifatturiera dell’Unione Europea abbiamo inventiva e ci distinguiamo per alta qualità in molti dei prodotti che mettiamo sul mercato, ma almeno negli ultimi due decenni non siamo stati altrettanto pronti nel fornire risposte tempestive e adeguate a un mercato in via di cambiamento. Spesso più che un’opportunità, nell’abituale operatività di aziende e uffici pubblici la digitalizzazione è stata considerata un ulteriore problema da gestire. Oppure è stata vissuta come risultato di cui vantarsi. Oggi sappiamo tutti che invece la digitalizzazione è la normalità. E nella vita bisogna continuare a studiare e ad apprendere. Anche dopo scuole e università».

Il governo ha “benedetto” l’accordo della Cdp con Tim per la creazione della rete unica per la banda ultra-larga. Quali sono i tempi?

«Magari potesse essere la ministra per l’Innovazione a dettare i tempi. È naturale che stia alle aziende coinvolte definire piani operativi. Per quanto mi riguarda l’indirizzo da dare è di agire al più presto possibile. Il nostro Paese è già in ritardo e per superarlo deve essere certo che la connettività sarà tenuta a coprire anche zone attualmente, sottolineo attualmente, poco attrattive per le imprese dal punto di vista economico. Una presenza dello Stato nell’operazione serve anche a garantire che il raggiungimento di questo obiettivo di interesse nazionale venga assicurato. E’ utile per permettere di studiare meglio ai giovani di tanti paesi d’Italia, serve al turismo, serve a far crescere l’adeguatezza al mondo digitale della quale parlavamo prima. L’infrastruttura a sostegno dell’innovazione di un Paese non riguarda solo la connettività, ma deve comprendere le tecnologie che sono alla base dello sviluppo dei servizi digitali. Queste tecnologie sono il cloud computing (ossia la nuvola nella quale vengono conservati e analizzati i dati) e le altre tecnologie che saranno utili per aumentare la capacità di calcolo e ridurre il tempo di latenza nelle risposte (ossia la velocità di risposta ad un comando) come high performance computing, il 5G, edge computing, hyperscale computing».

La rete è «strategica», perché lasciare il controllo a un soggetto privato che è in concorrenza con gli altri operatori che la usano?

«Nel nostro Paese esiste un’economia di mercato e i privati hanno ruolo essenziale. In un campo strategico come quello della rete la funzione di indirizzo dello Stato non richiede certo di fare a meno di privati. E lo Stato dovrà assicurare che il complesso dell’operazione sia nell’interesse della collettività e della competitività dell’interno Paese».

Nel complesso su quanti fondi Ue contate a fronte di progetti concreti?

«Il governo e vari uffici hanno lavorato anche in agosto per mettere a punto quello che possiamo paragonare un mosaico: ogni tassello è un progetto per investimenti da realizzare con i 209 miliardi assegnati all’Italia nel Recovery Fund. Non posso dare ancora una risposta in cifre perché il lavoro sui tasselli è in corso con un grande impegno del ministro per gli Affari europei Vincenzo Amendola e, come si può immaginare, occorre armonia e compatibilità tra l’uno e l’altro tassello. Poi, e non è certo un dettaglio, i piani andranno sottoposti all’Unione Europea che ci assegna il 28%, ripeto 28%, dei fondi previsti per 27 Stati».

Quando presenterete i primi progetti al governo?

«Lo stiamo facendo, c’è consultazione costante tra ministri e collaboratori. All’interno delle grandi aree del Recovery Fund, il Dipartimento che ho l’onore di guidare sta concentrando gli sforzi su quattro campi strategici: 1)infrastrutture e sicurezza, 2)dati e interoperabilità, 3)servizi digitali e piattaforme, 4)competenze digitali e innovazione».

Si parla di e-health, e-goverment, e-learning: qual è la priorità?

«La priorità è dare la possibilità ad ogni settore di avere quella “e” davanti a parole come infrastrutture, servizi digitali, competenze e accompagnare la trasformazione. Il Covid-19 ci ha insegnato che il futuro può riservarci eventi inaspettati ai quali dobbiamo rispondere rapidamente. I dati e l’analisi dei dati per capire i fenomeni, i servizi digitali e la connettività possono essere una buona base per affrontare molti eventi inaspettati. Ma ovviamente oggi ci dobbiamo impegnare affinché l’organizzazione pubblica e privata accolga il digitale e tuteli sia l’efficienza delle aziende sia i diritti dei lavoratori».

L’amministratore delegato di Tim, Luigi Gubitosi, sostiene che il digital divide sarà chiuso nel 2021.

«Credo che l’intero settore delle telecomunicazioni abbia chiaro che la connettività è una priorità nazionale. Così la considera il governo. Tutti siamo responsabili di accelerare le nostre azioni in base ai rispettivi ruoli per portare Internet a chi ancora non ha accesso. In Italia sono 204 i Comuni nei quali la percentuale di utenze “no internet” è superiore al 10%. Si può stimare che circa 16 mila cittadini in questi Comuni non risultano coperti nemmeno da rete mobili. Al di là di quando finirà la copertura in fibra, sarebbe utile iniziare a coprire il prima possibile questi Comuni ancora privi di qualunque tipo di connettività».

Cablare e portare la banda ultra-larga non basta. Cosa serve per evitare che il digital divide si trasformi in social divide?

«Vero, una infrastruttura adeguata è necessaria ma non sufficiente a superare il divario digitale che si ripercuote anche su creazione di servizi digitali e diffusione delle competenze digitali. Superare questo dislivello non è semplice perché riguarda anche la sfera delle attitudini delle persone. Ma bisogna cominciare, soprattutto con i bambini e i ragazzi nelle scuole. Ho proposto alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina di introdurre nei corsi scolastici spazi dedicati all’apprendimento di informatica e nuove tecnologie per accrescere le competenze digitali. Per gli atenei ho concordato con il ministro dell’Università Gaetano Manfredi di prevedere nei vari corsi di studi dei momenti di integrazione della materia con il digitale».

Insegnati e professori saranno preparati a farlo?

«lI corpo docente e professori in servizio nelle scuole italiane ha ammirevoli qualità. L’aggiornamento professionale e anche integrazioni di nuovi docenti potrebbero svilupparne ancora di più le capacità».

Uno studio ha calcolato che portare la memoria della Pubblica amministrazione sul cloud farebbe risparmiare almeno un miliardo all’anno, visto che la PA ha 11 mila data center per 23 mila amministrazioni, spesso incapaci di comunicare fra loro. Lei ha anticipato al Forum Ambrosetti di Cernobbio che il governo ha messo le basi per un «cloud nazionale» nel decreto semplificazioni. Di che cosa si tratta?

«Lo studio è corretto. Nei nostri calcoli la Pubblica amministrazione, a regime, risparmierà una somma equivalente. Ma affinché si faccia fronte all’esigenza di rendere i servizi digitali sicuri, veloci da sviluppare e le numerose banche dati interoperabili, quindi in grado di comunicare agilmente tra loro, ci siamo attivati fin dai primi giorni del mio mandato. Abbiamo già censito i diversi data center dando indicazioni su quali sono ormai obsoleti, privi di capacità elaborativa, insicuri ed ad alto consumo energetico. Questi devono essere dismessi, mentre bisogna investire nello sviluppo di una rete di data center ad alta affidabilità localizzati sul territorio nazionale e dedicati ai servizi della Pubblica amministrazione. Nel decreto “Semplificazione e innovazione digitale” approvato dal Senato e adesso sottoposto alla Camera sempre per l’esame sulla conversione in legge abbiamo messo le basi per questo progetto».

Qual è il vostro piano per il cloud?

«La Pubblica amministrazione già da mesi ha indicazione di non investire più nei data centre di proprietà. La pubblica amministrazione può rivolgersi: al mercato per acquisire servizi cloud, alle società in house con datacenter affidabili e sicuri, e infine alla rete di data center di cui abbiamo parlato sopra».

Di chi sono i dati sul cloud? Dove sarebbe opportuno che fossero?

«I dati sono di chi li produce delle amministrazioni, dei cittadini. Il concetto di proprietà non esiste, esiste il concetto di titolarità normato dal Gdpr. La domanda è quale è il controllo che io posso esercitare sui dati? Quali diritti posso esercitare sui dati?».

La Ue avrà il suo cloud per i Paesi membri dell’Unione?

«E’ un valido obiettivo da porsi, anche se per realismo dobbiamo riconoscere che non è giuridicamente e tecnicamente realizzabili in poco tempo».

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