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De Vecchis, Huawei: “Rivedere i permessi per il 5G e varare un piano di digitalizzazione nazionale”

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Articolo di Bruno Ruffilli, La Stampa

 

Il presidente italiano del colosso cinese delle tlc: “Il Recovery Fund è l’occasione per porre fine al digital divide tra il nostro Paese e il resto d’Europa”

“I terrapiattisti esistono, e sono sempre esistiti, anche dopo Galileo”, osserva Luigi De Vecchis, presidente di Huawei Italia. Se da una parte, il Recovery Fund spinge sul digitale, dall’altra si moltiplicano quelli che ipotizzano un legame tra coronavirus e reti 5G. “Dietro il caso dei Comuni che hanno vietato l’installazione di antenne 5G vedo solo la ricerca del consenso popolare. Per fortuna il Governo è intervenuto e ha fermato queste delibere, però ne nasce una narrativa distorta in cui certe scelte vengono imposte dall’alto, e invece se ci fosse un’informazione più semplice e più chiara certe storture si potrebbero evitare”. Il percorso verso un’Italia digitale è ancora in salita, ma qualcosa migliora: alla fine del 2019, l’82% dei numeri civici era raggiunto da una connessione internet con velocità maggiore o uguale a 30 Mb per secondo. Un dato positivo, anche se il 18% rimane escluso.

Ma con le nuove esigenze del lockdown, come smart working e didattica a distanza, siamo certi che 30 Mb bastano?
“In questi mesi abbiamo spesso letto che ha funzionato tutto, che la rete ha retto. In realtà il problema si è verificato in casa con il wifi, perché tutti abbiamo sperimentato rallentamenti, ad esempio durante la didattica a distanza, se altre persone in famiglia erano connesse. La rete attuale non basta, in Italia c’è un digital divide che non riguarda solo le zone rurali: altro che aree grigie, è tutto il Paese che è arretrato, e per portarci al livello degli altri abbiamo due strade, la fibra ottica e il 5G”.

C’è un motivo per preferire una all’altra?
“Io punterei su entrambe: accelerare la disponibilità della fibra ultra broadband e disponibilità delle frequenze che si utilizzano nel 5G con una ampiezza di banda adeguata alle velocità di cui il 5G dispone. Non solo, le reti di telecomunicazioni e la loro sicurezza sono ampiamente verificate a livelli di comitati internazionali di standardizzazione. I vari Paesi dovrebbero utilizzare le competenze di questi comitati e varare leggi sulla sicurezza che non penalizzino fornitori non europei solo sulla base di pregiudizi. Per realizzare la rete 5G in tempi brevi servono enormi risorse e grandi capacità di sviluppo e tutti gli attori, europei e non, sono indispensabili per raggiungere l’obiettivo. Non ha senso bandire un vendor quando esistono questi enti mondiali di standardizzazione che certificano il 5G come assolutamente sicuro. Per consentire al Paese di recuperare il gap con altri paesi bisognerebbe accelerare tutti i processi di notifica e prescrizione e basarsi, come in Germania, su autorizzazioni preventive a seguito di test di verifica di ogni tecnologia. Si devono rivedere le concessioni dei permessi e varare un progetto di digitalizzazione nazionale. Parlare ancora di digital divide in Italia è paradossale. Serve la banda larga in tutto il Paese, non solo nelle grandi città, e il 5G è una soluzione, ma attenzione: oggi quando parliamo di 5G ci riferiamo a un mix di 4G e 5G; la rivoluzione arriverà solo con il vero 5G, che si basa sulla tecnologia a onde millimetriche”. Gli operatori devono investire sulla rete e sarebbe auspicabile che i costi elevati delle frequenze fossero ridotti al minimo o addirittura azzerati forzando però gli operatori a investire velocemente queste risorse destinate all’acquisto delle frequenze rinforzate con altrettante risorse economiche degli operatori

Intanto in diverse zone d’Italia non sono coperte nemmeno dal 4G.

“La combinazione tra segnale wireless e fibra è ideale anche per risolvere il problema della copertura. Non sono tecnologie antagoniste, ma complementari, a seconda della situazione e della convenienza economica. Una delle caratteristiche più interessanti del 5G vero è il beamforming, la possibilità, per così dire, di puntare l’antenna dove serve, una sorta di luce spot che illumina un punto. Le antenne sono più piccole e hanno una minore potenza, dunque si riduce anche l’impatto ambientale oltre alle infondate preoccupazioni sulla salute”.
Il Recovery Fund può essere l’occasione di fare finalmente il salto oltre il digital divide: per voi su che cosa bisogna puntare innanzitutto?
“Esiste uno studio di Open Signal, una società americana, che confronta il 5G in vari Paesi: in Italia siamo messi bene in quanto a prestazioni, allineati tra la Svizzera e il Canada, e molto più avanti degli Stati Uniti. Ma se invece paragoniamo il tempo che gli utenti passano su reti 5G, che indica l’effettiva disponibilità di questa tecnologia, allora l’Italia è ultima tra i Paesi industrializzati. Qualche operatore si è portato avanti, utilizzando le frequenze del 4G, cioè un mix 5G e 4G, ma le prestazioni non sono quelle di una rete 5G vera con le frequenze giuste. Se invece consideriamo il 5G puro siamo messi malissimo, con solo il 3% delle installazioni a fine 2020”.

In questo 3% peraltro non c’è Huawei, vero?
“Tre anni fa l’Italia era all’avanguardia nel 5G: erano state assegnate le frequenze e realizzati i primi trial a Bari, Matera, Prato, L’Aquila e Milano. In pochissime settimane abbiamo messo in piedi la sperimentazione con 50 antenne, avvalendoci di un partenariato pubblico-privato e sono state sviluppate nuove applicazioni per rendere piu’ efficienti ed innovativi diversi servizi pubblici e privati. Se replicassimo quel modello, snellendo la burocrazia e utilizzando le tecnologie più competitive e più avanzate, potremmo portare le reti di prossima generazione in tutta Italia in tempi rapidissimi. È la burocrazia che ci sta mettendo in difficoltà in questo momento perché un operatore che decide di acquistare tecnologia Huawei, ricordo che abbiamo un discreto vantaggio competitivo e tecnologico, deve passare attraverso notifiche e prescrizioni che comportano lungaggini bibliche e diffidenza tra chi deve realizzare le reti. Ecco, questo è uno dei grandi problemi. Noi chiediamo al Governo di testare tutto quello che ritiene necessario nei nostri sistemi per verificarne la sicurezza, ma poi di accelerare la digitalizzazione a favore dell’industria, del Paese e dei cittadini”.

Due o tre anni fa l’Italia sul 5G era avanti al resto dell’Europa: come mai stiamo perdendo questo vantaggio?
“Lo abbiamo già perso. Siamo stati i primi ad assegnare le frequenze, ma poi le abbiamo vendute a prezzi molto alti: avremmo dovuto tenerli più bassi e vincolare chi se le aggiudicava a degli investimenti, perché è così che si fa crescere il Paese”.

Eppure c’è di mezzo anche una discreta percentuale di Pil. Come si potrebbe usare il Recovery Fund per spingere la digitalizzazione?
“Dovremmo tornare a fare ordine sulle frequenze, anche riassegnandole eventualmente con un nuovo bando senza costi ma che favorisca gli investimenti sulle reti. E soprattutto, noi adesso parliamo di 5G come se fosse l’asso nella manica che arriva e spariglia tutto il gioco del Paese, ma non è così. Dovremmo parlare di trasformazione digitale, di economia digitale, di un ecosistema che comprende tecnologie come intelligenza artificiale, cloud, realtà virtuale e aumentata, big data, robotica, Internet delle cose, industria 4.0. Tutte usano l’infrastruttura ma ciascuna ha una sua specificità. Per questo siamo chiamati a uno sforzo enorme: gli investimenti del Recovery Fund non devono servire solo per il 5G, ma anche per cambiare l’università e dare agli studenti una formazione immersiva, che presenti tutto lo scenario che nascerà con le nuove tecnologie”, poiché queste sono destinate a sostituire tutto il vecchio legacy ICT”.

E invece?
“Pare che tutti sappiano esattamente cosa fare dei miliardi del Recovery Fund, mentre per me è importante dire dove si vuole arrivare. Se non si tiene conto del sistema non si riesce a capire come sviluppare una strategia per la digitalizzazione totale. C’è tanto lavoro da fare e non possiamo permetterci di perdere il contributo di nessuno: bisogna mettere da parte la geopolitica e puntare sulla qualità della tecnologia. D’altra parte, pensiamo a Clinton, che pure ha fatto tanti errori, ma introdotto il concetto di autostrade digitali, grazie al quale poi è nata una cultura che ha portato a colossi del web come Yahoo, Google e altri. Con ogni nuova generazione di rete cellulare sono nate nuove opportunità per le imprese, e succederà lo stesso anche con il 5G, per questo serve una strategia chiara”.

In Cina sta succedendo già, ma in Italia?
“Ultimamente parlavo con un amico ingegnere e professore alla Sapienza che mi raccontava di essere al lavoro su un nuovo tipo di batteria, una tecnologia potenzialmente rivoluzionaria, e mi ha chiesto di intervenire come Huawei. Ma se lo facciamo, poi ovviamente useremo noi questa tecnologia, e invece vorrei che potesse intervenire il Governo, come per altre startup che nascono e crescono qui ma poi vengono acquisite da multinazionali straniere. Questo mentre l’Italia fa acquisizioni dal Brasile. Un altro esempio? Sempre a Roma, all’università Tor Vergata, è stato sviluppato da Voicewise un sistema che riconosce dalla voce se una persona è positiva al coronavirus o no: basta uno smartphone per il test, e se ne potrebbero fare milioni ogni giorno, altro che i 200 mila attuali. Sarebbe molto utile avere investitori per questa tecnologia”.

Però il digitale avanza: abbiamo visto negli ultimi tempi che quando c’è stato un incentivo economico gli italiani si sono precipitati ad adottarlo, com’è successo con il reddito di cittadinanza, con i buoni per le biciclette, e ora con il cashback. In tutti e tre i casi il sistema non ha retto: arriveremo mai a una pubblica amministrazione digitale ed efficiente?
“Negli anni sono state scritte decine di milioni di linee di codice per applicazioni in svariate migliaia di attività, nella pubblica amministrazione come nel privato: mi domando se tutto questo lavoro si può ancora utilizzare, e da ingegnere devo onestamente rispondere di no. Con l’intelligenza artificiale la progettazione e la gestione delle infrastrutture sensibili saranno completamente diverse, e costeranno molto di meno rispetto a oggi. Ma per arrivare a questa semplificazione bisogna fare tutti gli investimenti che non abbiamo fatto in 30 anni. Nel Recovery Fund sono previsti 48,7 miliardi per digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura. Ben vengano se includono anche un sistema di formazione per la nuova pubblica amministrazione: altrimenti, usare intelligenza artificiale e altre tecnologie senza ripensare il modo in cui la PA fornisce i suoi servizi è solo un’ulteriore complicazione”.

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